Detesto con tutte le mie forze i graffiti e tutte le forme di vandalismo che devastano la città di Monza, per la pena del contrappasso segnalo questa mostra (a Bologna) in cui viene esaminato il punto di vista artistico del fenomeno.
Dal mio punto di vista il confine tra arte e vandalismo non è per niente sottile, c’è un enorme solco che separa chi imbratta un treno o un muro e un artista per cui, senza troppo imbarazzo, incollo il testo di presentazione di chi sa commentare questa forma d’arte.
Del distacco dei “graffiti”
Una rivoluzione vera e propria nel campo ancora troppo trascurato del restauro e della conservazione della street art
“Fu oggetto di molte studiose ricerche in questi ultimi anni il distacco delle pitture a fresco dall’intonaco dei muri, senza segare la parete, sia che fosse costrutta di sassi, o sia che fosse stata edificata di mattoni; e si videro rivivere le questioni che altre volte debbono essersi agitate su di un tale argomento, se è pur vero, come sembra evidentemente provato, che un simile tentativo siasi in diverse epoche riprodotto, e forse collo stesso apparente lenocinio di una scoperta importante. Non è questo il primo caso che ai moderni siasi attribuito ciò che apparteneva agli antichi, senza poterli aggravare d’usurpazione o di plagio, poichè le stesse circostanze, o le stesse eventualità portano per se medesime agli stessi risultamenti senza necessità di una tradizione positiva ci conservi le traccie dell’operato da’ nostri predecessori”.
Questo l’incipit, evidentemente polemico, con cui Francesco Leopoldo Cicognara volle aprire un suo scritto edito nel 1825 fra le pagine dell'”Antologia” di Visseux, rivista che ospitava le migliori penne e menti della cultura letteraria e scientifica italiana dell’epoca.
A circa cent’anni di distanza dalle prime sperimentazioni della tecnica dello strappo del colore per opera del ferrarese Antonio Contri, nonostante i numerosi successi che in mezza Italia ““ a Milano, come a Bologna, Roma, Padova o Roma ““ avevano ottenuto e stavano ottenendo i suoi epigoni ““ Giacomo e Pellegrino Succi, Antonio Boccolari, Pietro Palmaroli, Giuseppe Zeni, Filippo Balbi, solo per citare i principali ““, l’allora presidente del Consiglio dell’Accademia di Belle Arti di Venezia sosteneva a gran voce il proprio dissenso verso “i fautori di questa pratica”, i quali “non mancarono di farne credere prezioso il trovamento, col dirla preservatrice di opere destinate a perire colla ruina degli edifici”, tanto che per troppo tempo “si incoraggiarono e si premiarono li discuopritori di questo nuovo mondo, annunciato sotto l’aspetto del più saggio provvedimento”, in realtà strumento “degli speculatori che venderebbero all’estero non pur le pitture, ma persino i chiodi d’Italia, i quali vedendo impoverirsi le chiese e i palagi dei quadri che sfoggiano nelle gallerie di Dresda, di Berlino, di Londra emigrando dal nostro suolo, credettero di poter sostituire al loro traffico una buona miniera di preziosità dando di mano alle pitture a fresco”.
Un rischio effettivo di cui rende tangibile testimonianza il triste elenco delle “dipartite” consumatesi negli anni subito precedenti lo sfogo dell’illustre storico e scrittore d’arte, ma soprattutto nei decenni successivi: si pensi, solo per citare alcuni esempi eclatanti, favoriti da un utilizzo troppo disinvolto della tecnica inventata dal Contri, agli affreschi di mano di Giulio Romano, Perin del Vaga, Annibale Carracci e Francesco Albani, Bernardino Luini, Paolo Veronese, Beato Angelico, Ludovico Carracci, Guido Reni, Luca Signorelli, Domenichino, Pinturicchio, Perugino, Domenico Veneziano, Sandro Botticelli, Giambattista e Giandomenico Tiepolo, Domenico Ghirlandaio, che lasciarono i propri muri per essere trasportati su tela e quindi confluire nelle maggiori collezioni private e pubbliche europee, specialmente in quelle inglesi e francesi, se non, in diversi casi, a partire dagli ultimi due decenni dell’Ottocento, in quelle americane.
Una diaspora tragica, nei numeri e nei modi, un depauperamento culturale e artistico che segnerà per sempre il nostro patrimonio pittorico murale trovando nuova linfa nella prima metà del XX secolo, in anni in cui era ancora evidentemente possibile far uscire impunemente dai nostri confini un muro affrescato e vederlo da lì a poco esposto nelle sale di una raccolta o di un museo stranieri.
Rischi sempre meno frequenti a partire dal secondo dopoguerra, grazie anche a una legislazione più sensibile e attenta al problema, così come a un maggiore controllo del territorio da parte delle istituzioni, che però non eviteranno un ulteriore e quanto mai accentuato abuso della tecnica estrattista secondo modi e ragioni assolutamente non preventivabili all’epoca del Cicognara, anche perchè debitori di logiche di natura conservativa e museografica che forse egli stesso avrebbe sposato appieno se vi si fosse trovato al cospetto nel tempo in cui furono propugnate da personalità intellettuali altrettanto forti ““ come, fra gli altri, Roberto
Longhi, Cesare Brandi, Ranuccio Bianchi Bandinelli, Lionello Venturi, Ugo Procacci ““ in grado di influenzare la cultura del restauro lungo tutto il Novecento e aprire alla cosiddetta “stagione degli stacchi”.
Questioni delicate, ancora oggi oggetto di dibattito acceso fra gli storici, che nessuno avrebbe mai pensato potessero tornare di attualità di questi tempi, ora che sono più o meno trent’anni che “gli stacchi non si fanno
” quasi più”. Ora che la prassi estrattista è stata praticamente bandita dai protocolli di quegli uffici ministeriali addetti alla tutela del nostro patrimonio pittorico murale che ne erano stati fino al giorno prima i maggiori sostenitori. Ora che di affreschi staccati sono pieni i depositi delle Sovrintendenze più che le sale dei musei. Ora che si preferisce comunque il consolidamento in loco rispetto a qualsiasi trasporto su un altro supporto.
E invece no. Da pochissimo tempo tutto sembra essere tornato in gioco. Perchè dopo un lungo silenzio gli estrattisti hanno ripreso possesso della scena del restauro. E lo hanno fatto in grande stile, con un improvviso colpo di reni, scompaginando le carte, ridando vitalità e fama a quel “meraviglioso artifizio ” degno d’esser chiamato gran benemerito della pittura”. A quell'”inestimabil segreto molto pregevole e raro, stupendo e quasi incredibile, cosa mirabile e quasi da non prestarvi fede”,8 che solo qualche tempo fa non era più considerato tale. Lo hanno fatto con le Blu, Senza titolo (Mani aperte da libro pop-up), 2006. Associazione Italian Graffiti medesime aspettative del passato, per preservare le pitture “da quel pericolo a cui soggiacciono i muri”, per ridurle “a modo di quadri”, in tele, “facendo credere che su d’esse, e non già sui muri fossero state prima dipinte, e rendevole così eterne, sussistenti, e trasportabili agevolmente da un luogo all’altro”.
Solo, per fare tutto questo, hanno dovuto mutare l’oggetto del desiderio, lasciare gli antichi affreschi alla mercè della burocrazia ministeriale e offrire i loro servigi all’ultima frontiera della pittura murale, a una declinazione dell’arte contemporanea che in molti, fra gli stessi esperti, non ritengono degna di alcuna attenzione, nè critica, nè storica, nè tantomeno conservativa.
Stiamo parlando dell’art graffiti, del muralismo urbano, del writing, insomma delle espressioni pittoriche che
rientrano nell’ambito più generale dell’urban art. Un vero e proprio corto circuito nel mondo del restauro, o meglio una rivoluzione copernicana in grado di ribaltare completamente la questione, il punto di vista, la prospettiva. Tanto da mischiare le carte, riazzerando una storia secolare per scriverne una nuova basata su un canovaccio del tutto simile, attualizzato però a questo preciso presente storico, a questa ultima trasformazione della millenaria tradizione italiana del dipingere i muri.
Luca Ciancabilla
(tratto dal testo in catalogo “Del distacco dei “graffiti”)
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